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10 November 2014

La caffettiera, metablogica e un nuovo post dei post

Sono un vulcano...
eccomi qui, ancora in risalita forte e chiara, un bimbo febbricitante che ho appena accompagnato al riposino, un chercheur via per per quattro giorni ad una conferenza. Seduta ad un pc che va a carbone,eccomi,  io sono un vulcano. Potessi, mi chiuderei in casa a scrivere. Le rare volte che mi viene questo fuoco comunicativo, immagino una stanza da letto, una scrivania e una finestra sul mare. E io che scrivo, scrivo scrivo.....


Da dove comincio? Dal vulcano. Perchè sono sempre così? O niente o tutto, un tutto da non riuscire a mettere i pensieri in fila, a non riuscire a domare le parole? Sarò mica bipolare? Ho chiesto alla Matrioska l'altro giorno. SI è messa a ridere. Ah la MAtrioska. Ci starebbe anche lei nei miei pensieri scritti. Elogio di una Matrioska si intitolerebbe quel pensiero fatto a post.


E adesso, un respiro grande, un po' di metablogica e poi un post dei post.


Dove va questo blog? Cosa fa? Di cosa parla? Che toni ha? Non ne ho idea. Di tutto un po' e va benone così. Non ho per fortuna questa smania che mi si legga, mi si segua. La smania che ho è di esprimermi. Di tirare fuori cose che stanno lì a far muffa e corrodere gli animi. Di condividere. DI trovare anime gemelle. Quello si.

Di cosa continuerò a parlare? Del più e del meno? Di burnout (o quello che fu?), di depressione, della psicoterapia, di famiglie disfunzionali e malattia mentale, di conciliazione scontenta. Di bilinguismo e fatica, quanta fatica.

A volte però mi piglia un brivido... e se provassi ad impegnarmi un po' di più? E se provassi a coltivare quell'interesse che sta premendo e ne facessi qualcosa di più strutturato? Saprei domare il mio caos e darmi dei limiti? Un giorno magari potrei essere anche io una casalinga con bonus, una felice donna a casa con un bell'interesse da coltivare. In tante(i?) ci provano, magari non funziona, ma magari stai bene lo stesso. Mha.



L'ultimo post dei post non è rimasto del tutto nell'aria, poi alcune cose le ho scritte davvero, alcune no, altre se ne stanno lì in draft, in forme più o meno compiute. Ho 72 post in draft. Io sono la donna-draft! Parecchi sono abbozzi, cose che premevano e non hanno trovato la giusta luce. Alcuni post sono belli che finiti, ma non c'è più la luce giusta o chissà che cosa. IO non sono tipa da programmare post. Qualche volta l'ho fatto ma niente non funziona. Il click deve essere una cosa del momento. Se al momento del click lo spirito non è lo stesso del post allora non se ne fa più niente. Immagino sia così per molti. Io però penso che "costringermi" a scrivere qualcosina oggi giorno sarebbe terapeutico. Una sorta di meditazione. LA ricerca della calma giusta, del "la" della scrittura. Non è sempre possibile assecondare l'ispirazione del momento ed è un vero peccato. Se potessi scrivere quando mi preme l'ispirazione, sarei felice. Se fossi una persona meno caotica avrei un taccuino dei post che nascono lontano dalla tastiera. E sarei una donna meno caotica e più felice. Scrivere mi fa un gran bene. Nonostante io stia perdendo la grammatica, l'ortografia, il mio italiano tutto.

Oltre a finire o pubblicare quelli che già sono in draft, ma di quelli oggi non ne parlo, bisognerà che mi somiglino di nuovo... Ecco, se potessi avere tutto il tempo e la pace e l'ispirazione non mi abbandonasse, questi sarebbero i pensieri di cui scriverei:

  • Lettera ad uno pseudo-stalker
  • che andrebbe insieme o forse no insieme ad un altro molto tosto intitolato: Molestate
  • I signori che guidano i tram
  • Ti voglio bene come il mare, che però poi è stato messo in crisi da:
  • Ci mancava solo Edipo
  •  Yin &Yang
  • che fa il paio con Squabus litiga! Ed è lo stesso serena

Sono poi mica tanti a ben vedere... Ma siccome sono un vulcano, invece ora vado a leggermi un libro, tanto Il Pistacchio tra pochissimo si sveglia!
Volete mica votare il vostro preferito?

Lo sentite questo rumore di caffettiera? SOno io! C'ho un vulcano in petto!!!

17 May 2014

Di scheletri ed etichette

Ma voi ce l'avete uno scheletro nell'armadio? Io ce l'ho da tantissimo tempo ma non ricordo mi abbia dato mai tanti pensieri come oggi.

Il problema del mio scheletro è che io -oggi- muoio dalla voglia di farlo conoscere a tutti. Chissà poi perchè. A volte lo lascio uscire, in converasazioni che mi paiono di condivisione bella. Mi prendo coraggio e dico ecco, vedi, io convivo con questo. L'ultimo anno è stato l'anno in cui gli ho fatto fare più giri che in tutta la vita mia cosciente. E a pensarci sono esterrefatta perchè per un paio di decenni abbondanti è stato chiuso a mandata multipla. Non avevo nessuna voglia di parlarne nè che nessuno ne sapesse nulla. Oggi invece, se non lo presento, spargo pezzettini di lui ovunque.

In realtà sono ancora troppo fragile per presentarlo agli amici,   se lo esco dall'armadio, poi lui è come se per quelle persone non ci rientrasse più. Diventa uno scheletro anche un po' fantasma, che mi segue ovunque. Io mi sento etichettata.  Ah vedi ecco Squabus col suo scheletro. Squabus ha detto questo? Ah deve essere per via dello scheletro. Squabus ha fatto quello? Sempre lo scheletro. Che poi è vero, mi sa, lo scheletro si sta prendendo tutto, oppure Squabus non sa bene dove metterlo e allora se lo ritrova tra i piedi ad ogni passo. Fatto sta che Squabus è etichettata dal suo scheletro. Ed è ancora troppo fragile per sostenerlo.

E' una grande scocciatura. Soprattutto una gran fatica.

29 March 2014

La titolare

Bocca serrata e sottile, i cui lati puntano verso il basso. Anche lei mi ricorda mia madre, mia madre nei momenti no. La titolare solo a fotografarla, solo ad immortalare quell'espressione quasi terrorizzata, sembra schiacciata dalla vita. Le voci pettegole che si sentono fanno il resto nel dipingere intorno a lei un'aria di sofferenza e fatica. Ma è una fotografia sbiadita, vuota e ormai  irreale, probabilmente di un tempo che fu.

La titolare ha un figlio autistico e un passato di sofferenza marchiato in quella piega delle labbra, sussurrato dalle voci di corridoio.

Pare che tenda a far pesare agli altri i suoi problemi, aveva detto una voce petulante.
Certo è che ha davvero un'aria fragile ho osservato io prima di conoscerla, prima di sorprendermi delle sue battute ciniche e taglienti. Prima di rimanere sbalordita che da quella fotografia in tristezza e sofferenza saltassero fuori una fermezza e una determinazioni incredibili.

E' arrivata da noi a giugno dell'anno scorso, il giorno prima Squabus giocava a calcetto e si domandava come sarebbe stato averla come collega. In mezzo alla schiera di titolari indolenti e scansafatiche, non contenta di dove stava, lei aveva chiesto di cambiare gruppo, rischiando di macchiare, in un certo qual senso il suo cammino professionale. Poteva perdere o guadagnare tutto. E non so fino a che punto è cambiato il suo scenario interiore, non so fino a che punto vede un miglioramento nella sua vita, glielo dovrò chiedere, sono molto curiosa.

E' arrivata un po' schiva e timida, continuando a bere caffè con le persone di prima, nè dell'ex gruppo nè del nuovo. Si è guardata intorno circospetta, come tastando il terreno con attenzione prima di appoggiare il piede. Come chi si è vista sprofondare troppe volte nelle relazioni umane o come chi è irrimediabilemnte paranoico. Il dubbio è forte tutte le volte che mi dice "questo è un covo di serpi", raccontandomi tal o tal altra vicenda, come una lugubre novella 2000. Devo dire che del suo personaggio un po' mi insospettisce quel suo vedere tutto nero e cattivo, accanto all'avermi detto più di una volta che quando doveva decidere in che gruppo andare e poi decise per il nostro non sapeva che c'ero io. Lei lo sa che il suo arrivo da noi rende vana ogni mia speranza di diventare titolare. Ma chi potrebbe mai pretendere un tal riguardo verso una perfetta sconosciuta?


Ha preparato tutte le soluzioni che le servivano nella vetreria solida e luccicante, ha allineato perfettamente tutte le bottiglie sulla mensola del suo bancone. Ha messo il nastro adesivo colorato su tutte le sue cose, e come si usa ci ha scritto il suo nome, a chiare lettere: TITOLARE. Inizialmente ha scelto il nastro rosso, ma dopo qualche mese tutto è diventato verde. Una piccola insegna, anch'essa di nastro adesivo, campeggia sul suo bancone, scritta blu su fondo verde: ZONE VERTE.  Qualcuno deve averle fatto la battuta oppure lei ne ha fatto perfetta metafora, non era pronta ad affondare quel piede, poi ad un certo punto la fiducia l'ha pervasa e al semaforo è scattato il verde. Me la sono figurata intenta e concentrata a staccare tutti quei pezzetti di nastro rossi e sostituirli diligentemente con quelli verdi. Uno ad uno. La titolare è impressionantemente diligente e ordinata. Organizzata, puntuale. Bravissima.  Tutte cose che io non sarò mai a fondo o senza uno sforzo estremo.


Io - come poterlo negare? - rosico.
Rosico in un modo tutto mio, silenzioso e immobile. Incapace di volere male ad una persona così forte e sofferente. Non potrei fare del male neppure a persone che mi mostrano solo cattiveria e stolido disprezzo e che io ho preso a disprezzare a mia volta, pur con altalenanti sensi di colpa (un tal ingegner so tutto io, per esempio, ma quello è un altro ritratto e di tutt'altro calibro). 
Io davanti alla titolare resto abbagliata e anche un filo turbata.

Dal suo coraggio per esempio. O forse dovrei chiamarlo spirito di abnegazione. Dopo appena qualche mese, si è messa senza troppi teatrini a fare le cose tra le più truculente che si possano immaginare in un laboratorio di ricerca. Cose che però sono importanti e possono portare lontano nella comprensione della Scienza, con la esse maiuscola. Cose per le quali si è guadagnata il rispetto di tutti. Cose che io non riesco a dire, altro che immaginare di fare con le mie mani, o anche solo guardare con i miei occhi. Lei fragile, col suo bagaglio enorme di sofferenza marcato in viso, Lei, senza un lamento, ha preso in mano il bisturi e via.

E' lei che un giorno mi ha detto non c'è niente di peggio di un figlio malato. L'ha detto perchè io stavo alludendo ad altre possibili sofferenze, che non sono puntuali, che non hanno un prima e un dopo, che ti  entrano nell'essere fino a colonizzarlo interamente. Tanto che non sai chi sei e chissà se lo saprai mai. Scenari esistenziali e non, che non si possono dire tanto facilmente a chi non li conosce. Scenari che prima vanno smontati pezzo a pezzo e solo dopo se ne può parlare. Finchè sono così sofferenti, delicati, ci rendono delicati, fragili come cristallo. Ammiro e invidio la capità di parlare dei suoi demoni, significa che è andata oltre. L'allusione quel giorno però si è congelata tra i miei pensieri, finchè è scomparsa, volatilizzata. Delusa perchè non ci sono meglio e peggio nella sofferenza. C'è quel senso di tragedia e quella fragilità di cristallo. Il resto non conta. 
Quella stessa sera, quell'allusione volatilizzata mi si è ripresentata sulle labbra nella conversazione con un'altra persona. Mi sono tradita, poi mi sono pentita e non mi sento bene al pensiero di avere lasciato un pezzo di me vagare per menti altrui, senza la mia supervisione.

Molte persone credono -o si comportano come se credessero- che la sofferenza è solo una cosa terribile che ti succede ad un certo punto. Il fatto è che tu riesci o non riesci a fare fronte, a seconda di chi sei stato fino a quel giorno. Io resto sbalordita dall'inconsapevole arroganza di chi crede di essere forte perchè è riuscito a superare un evento difficile. La forza c'era prima, ed è un merito personale fino ad un certo punto, la tragedia certamente serve da filtro. O da palcoscenico.  

Io mi rispecchio invece in tutti coloro che sono cresciuti difettosi. Giorno dopo giorno nel difetto, fin dal principio o quasi. Che non significa che quella forza non ci sarà, un giorno, non significa affatto mollare. La forza verrà allenata, muscolo per muscolo, con fatica.
Significa però che verrà allenata in solitaria, davanti ad un pubblico che ci crede fragili punto, senza ragione. O forse per pigrizia, stupidità, insensatezza, masochismo.
Noi attori silenziosi, soli e incompresi di uno spettacolo criptico e inintellegibile.

Finchè non riusciremo a parlarne.