Quattro anni
Quattro anni sono il tempo in cui un atleta si prepara alla prossima olimpiade. Quattro anni sono un lasso di tempo che non ho mai dovuto/avuto il privilegio di considerare.
Pensare ai prossimi quattro anni è molto difficile per me che sto lottando per dare una dimensione degna al Passato, non farmi devastare da un Futuro che non arriva, per concentrarmi su un
Ora e Adesso. Grazie a
questo libro (quello piccolo e prezioso) semplice e difficile allo stesso tempo, per la prima volta, forse ci riesco. Un libro che ho aperto in un momento che gli più appropriato non si poteva e poi ho lasciato in sospeso, pur pensando a lui ogni giorno.
All'inizio di quest'anno prendevo coscienza della negatività del mio ambiente di lavoro. Siccome
sono troppo buona, o ingenua o sempre pronta a prendermi una grossa fetta delle responsabilità del sistema, mi sono messa e rimessa in discussione nel tentativo di salvare il salvabile. Ma
con un sano distacco con un tentativo faticossissimo di sano distacco. Sicuramente quando il contratto si avvicinava alla fine, non ho provato l'angoscia del passato, quando sentivo quell'ansia di dimostrare che valevo un rinnovo, quando sentivo di dovermelo sudare. Questa volta al contrario ero pervasa da una serena convizione che io non dovevo dimostrare niente a nessuno. Se possibile mi sono ancora più rilassata, come a dire io questa sono, potrei sì dare molto di più, ma di certo non in queste condizioni. Oh se ho dato di più, oh se sono stata più.
Mi domando comunque se quel di più non fosse un'illusione, quel passato di affanni, se io non fossi solo convinta di stare dando di più, solo perchè mi stavo dando pena, quando invece ora do (il) meglio proprio perchè rilassata e distaccata. Ma é un meglio un po' triste e sconsolato. Quel che più importa è che sicuro manca la passione, quel fuoco sacro del voler fare bene. Perduto, disperso. Forse (anche) questo è (tristemente) crescere, forse è questa mancanza di luce negli occhi che noi giovani ed entusiasti di ieri vedevamo in noi maturi, distaccati e disillusi di oggi. L'odio per il collega più anziano che indulge nella pausa caffè, il pensiero rabbioso - misto senso di ingiustizia che lui non fa un cazzo e noi invece si suda sangue. E la non comprensione che lui invece, intelligentemente, intanto che noi ci perdiamo in fatiche esagerate, sta stringendo relazioni che gli sono molto più importanti sulla sfera puramente lavorativa, del non rompersi la testa, rovinarsi il fegato, negandosi una pausa. E non sto parlando di politica (certo c'è anche quella, ahimè), sto parlando del coltivare le relazioni per il proprio benessere psicofisico. Le pause caffè sono sottovalutate. Ma questo è tutto un altro discorso...
Non mi sento mica troppo bene. Io, ma anche qui.
Intanto, nel giro di qualche mese da quella presa di coscienza, ho tagliato l'agognato traguardo del primo anno, grazie al quale ho maturato il diritto a lavorare all'80%. Il mio adorato
mamadag, che un anno e mezzo fa declinavo in tutte le salse. Erano i tempi in cui parlavo molto di conciliazione, di disparità di genere e cose importanti. Avevo creato una bella etichetta, che suonava cosi':
"conciliazione bisessuata". Poi ho smesso. Ed é peccato, perché avere il feed back di essere stata d'ispirazione era una cosa preziosa e bella. Ho smesso perchè al momento mi pare di avere poco da conciliare. Si conciliano due cose di valenza non posso dire simile, ma diciamo entrambe importanti. Si può parlare di conciliazione se fuori dalla famiglia che si deve gestire e si vuole godere, si trova un lavoro stimolante e interessante e che si desidera portare avanti bene e con la stessa passione di prima.
Se questo entusiasmo viene meno, non stiamo parlando di vera conciliazione, per lo meno non era questa la conciliazione di cui io parlavo prima. Questa in cui mi ritrovo è una battaglia di sopravvivenza. Per quattro giorni a settimana lo scopo é arrivare alle 17, tirando avanti come posso e senza tornare a casa troppo "pesta". Col senso di colpa del condividere le incombenze familiari con una persona che il suo lavoro lo adora e che si sta facendo in 4 per esserci, esserci forte e chiaro su entrambi i fronti. Temo che sia a questo punto che (le donne) mollano il colpo. SOno meno stimolate nella sfera lavorativa e allora, teoria dei giochi
docet, si mettono da parte. E' ancora un altro discorso. Parliamone, ad un certo punto parliamone.
Finalmente mamadag
Quando al primo di aprile sono passata all'80% sono rifiorita a nuova vita, finiti gli incastri e i mercoledì di maratone. Un po' di respiro e di tempo e finalmente delle ferie di cui disporre, che prima bruciavo in mercoledì pomeriggio presi per creare un
mama/papadag che volevo a tutti i costi ma che non mi aveavo concesso. Poi mi sono fatta inculare col cambio di contratto perchè le ferie di prima non avrei potuto trasferirle al nuovo contratto. Oddio fregare fino ad un certo punto perchè le ferie me le sono godute, eccome se me le sono godute. Anche lì sono come rinata. E quando al primo di agosto è iniziato il nuovo contrato e intanto il nido chiudeva per tre settimane, non ho esitato un attimo a prendere ulteriori 3 settimane, pur sapendo che poi avrei fatto fatica, per una volta ho fatto la cicala. Tra maggio ed agosto sono proprio pochi i giorni in cui ho lavorato. La sto pagando adesso. Da fine agosto a fine dicembre con 3 giorni di ferie, ma soprattutto nessuno su cui poter contare per le emergenze, sto facendo una gran fatica. Per carità poi faccio pratica zen concentrandomi sul fatto che i problemi sono altri e c'è chi sta peggio. Ma quando in collegamento skype sento mio padre appresso ai tre nipoti geograficamente vicini, un giorno babysitta uno, il giorno successivo l'altro, poi tutti e tre in un colpo. Ecco, lasciatemi uno spazio di lamento, mi si perdoni il post che forse scriverò sul fatto che mi sento sopraffatta dal non avere nessuno su cui contare e dal senso di gratitudine e debito enorme che sento verso la mamma (
santa impresaria) che ha tenuto il piccolo una mattina di emergenza. Il senso di debito mi pesa enormemente. Perchè il marito dell'impresaria ha detto chiaramente che lui non si fiderebbe se io ed il chercheur ricambiassimo il favore. Certo a loro una mano non servirà perchè hanno i nonni vicini. Doversi fidare di qualcuno che ti sta dicendo che di te non si fiderebbe fa male al cuore. Ma mi sono persa di nuovo.
Prendi una donna, dille che l'ami
Questo nuovo contratto. E' arrivato in sordina, non lo pensavo, non lo bramavo, non l'ho sudato. E' arrivato in sordina e poi ha fatto un gran frastuono. Quattro anni. Quattrro anni mi ha detto il capo buzzurro. Sto chiedendo un rinnovo 4 anni per te, lo vuoi? Pensavo mi stesse prendendo per il culo. Non ci potevo credere. Devono essere tattiche , deve essere il Teorema alla Ferradini della sfera lavorativa. Tu eri lì che dicevi vabbè se anche non mi rinnovi non è la fine del mondo, cerco altrove, con tutte le implicazioni che restare con te ha. Con questa legge che vieta di essere impiegati nella funzione pubblica per più di 6 anni, quanto più io rimango dove sono adesso, dove so per certo non si potrà aspirare ad un tempo indeterminato, quanto più tempo perdo altrove a costruirmi una possibile strada. Tac, proprio la volta che dai anche no, se non mi rinnovi non piango mica. Quattro anni. Il capo buzzurro mi ha offerto 4 anni di rinnovo. una cosa che non si è mai vista nell'istituto dove lavoro, quindi ora sono quella dei quattro anni. Che c'avrà mai quella che le anno offerto quattro anni di rinnovo? Ma poi lo vedi com'é scontenta, antipatica e sempre musona. e poi é sempre li' a bere caffé con tutti, la vita é proprio ingiusta!
La sventurata rispose
Nel mezzo di bufere esistenziali, mica troppo convinta ma concentrandomi sugli innegabili vantaggi, non da ultimo uno stipendio garantito, ho firmato accettando questi 4 anni. Eppure. Mi concentro sui privilegi. Il privilegio dell'80%. Il privilegio della calma, del non-stress, se solo accetto le cose come sono, se solo rinuncio. Se solo mi accontento. Eppure. Eppure c'ho una cosa indomabile in petto. Forse é la fiammella del
fuoco sacro che ogni tanto si riaccende e poi la bufera circostante la manda in fumo. E quella cosa imbizzarrita in petto mi dice scappa, altrove potresti rinascere. E se fosse il mestiere in sè ad essere sbagliato?
Poi succedono giornate iluminate in cui sono illuminata, appunto, e tutto è meraviglioso a prescindere se funzioni o meno. Giornate in cui mi dico ch epotrei fare altro, ma che potrei anche continuare a fare quello che sto facendo con rinnovata passione. E allora mi dico che
é vero che sono io il problema, ma stavolta me lo dico in modo positivo. Dipende solo da me.
Allora, di nuovo, cerco il modo di far funzionare tutto per il meglio e non lo trovo. E poi si parte per un altro giro di giostra, torno a casa pesta e mi ripeto come un mantra che non è obbligatorio, che posso ricominciare, per l'ennesima volta, altrove. Che sarebbe anche una sorta di rivincita. Ma io non funziono per rivincite. Io funziono per sbattere la testa centinaia di volte sullo stesso muro, finché non lo sfondo. A quale prezzo pero'?
Quattro anni sono un'olimpiade. Quattro anni mi si blocca il respiro. Possono cambiare tante cose in quattro anni, mi dico, posso provare a cavalcare ogni singolo giro di giostra cercando di non ammalarmene. Ah se cambiano gli scenari in quattro anni. Non ho "che" da essere quercia in un paesaggio di erbacce e fiorellini a cui dare da bere. Posso sopportare, posso vederli andare via, quelli che andranno, e concentrarmi su questa palestra di vita. Posso crescere e prendere queste difficoltà come delle prove da superare. C'è un qualcosa pero', quando penso a questi quattro anni, che mi fa vacillare. Tra quattro anni il mio bambino ne starà per compiere 7. Sette anni. Non sono solo io che devo crescere è anche lui. Io posso sopportare tanto, non c'é dubbio, ma lui? Posso davvero trascinarlo in questa avventura? Posso farlo crescere in questa olimpiade?